Sri Aurobindo nasce a Calcutta il 15 agosto 1872, dal Krishnadan Ghose (medico contotto) e Swarmalata Bose (figlia del famoso letterato Rajnarayan Bose), in quel Bengala che, all’inizio del secolo XIX, attraverso i canali della nuova influenza inglese, era divenuto un vero e proprio centro propulsore della cultura occidentale: com’egli stesso scrisse, nella sua casa paterna si parlava solo inglese e hindustani. Insomma, non conosceva il bengali, niente dell’India o della sua cultura. Inviato a sette anni, dal padre medico condotto, a studiare in Inghilterra, a Manchester, Londra e infine Cambridge (dove, come documenta un biografo, vinse tutti i premi per la versificazione greca e latina), lettore insaziabile, assimila in breve tempo tutta la cultura europea leggendone i classici, antichi, medievali e moderni, nelle lingue originali, compreso il nostro Dante. La sua rinazionalizzazione cominciò solo a vent’anni, al suo rientro in India e avvenne, com’egli stesso precisò, per naturale attrazione verso la cultura indiana: c’era un attaccamento al pensiero e alla letteratura inglese, ma non all’Inghilterra come paese. Nel Bengala intanto (la regione leader da sempre del pensiero e della cultura indiani), l’atteggiamento degli scrittori di fronte all’influsso occidentale era stato vario e discorde e, tralasciando quello meno originale che produsse solo sterili imitazioni, lo possiamo vedere paradigmaticamente rappresentato nelle tre diverse personalità di Bankim Chandra Chatterji, Madhusudan Dutt e Rabindranath Tagore, che alla vigilia del “fenomeno Sri Aurobindo” sembrano scandire, con note diverse, le ultime battute di un’overture.
Il rapidissimo e fruttuoso ciclo di ricerca sollecitata dall’impatto con l’Occidente fece riemergere le fonti della tradizione culturale indiana in una luce nuova: quella dello spirito sopravvissuto alla forma. E la posizione di Tagore diventa a questo punto emblematica: sembra verificarsi, fra lui e Sri Aurobindo, come un passaggio di consegne e un certo parallelismo di situazioni. Tagore fu un poeta in bengali, ma il primo poeta indiano ad avere larga fama in Occidente, attraendo scrittori di punta come Ezra Pound e W.B. Yeats. Sri Aurobindo è un poeta in inglese, ma intimamente indiano e in un senso più universale; in lui l’India assume più che mai quel vero aspetto che, come osservò J.C. Ghosh, rivestiva per Tagore: non solo la madrepatria del nazionalista ma un grande principio spirituale, cioè la fondamentale unità umana dei diversi popoli. E la fondamentale scoperta ̶ o ri-scoperta ̶ del segreto dei Veda, suo contributo originale alla storia umana, è frutto di una più alta e più profonda sintesi che non la semplice immersione nel passato culturale e religioso dell’India, perché Sri Aurobindo ha scoperto nuovi regni dello spirito, come osservò A.B. Purani, (The Life of Sri Aurobindo, p. 46). In lui i due movimenti, dell’Occidente e dell’Oriente, s’incontrano per completarsi in un’armonia più alta.
La sua novità fu captata subito da scrittori occidentali come i Nobel P. Buck, G. Mistral e R. Rolland e se l’inglese, fino a Tagore, aveva rappresentato in India un veicolo d’unione, un aspetto del movimento d’indipendenza, in Sri Aurobindo, e in particolare nel suo capolavoro Savitri, diventerà qualcos’altro: il Poeta, scevro dei difetti che sono stati rilevati in Tagore, sembra raccogliere tutta quell’eredità accumulata fin da Bankim, ricca ma ancora confusa, per darle una voce che appartiene a un futuro ormai iniziato. In una lettera del 1936, a proposito del futuro della poesia indo-inglese, Sri Aurobindo osservava: La mente del futuro sarà più internazionale di adesso (…) Se il nostro scopo non è il successo e la fama personale ma arrivare all’espressione della verità e dell’esperienza spirituale d’ogni genere in poesia, la lingua inglese è la più ampiamente diffusa ed è capace di profonde variazioni di espressione mistica che possono renderla mirabilmente adatta allo scopo; e, tra le ragioni per cui valeva la pena di tentare l’esperimento, la prima era che l’espressione della spiritualità in lingua inglese è necessaria e nessuno può offrire la reale sostanza come gli Orientali e in particolar modo gli Indiani. (CWSA, 27, Letters on Poetry and Art, p. 443-444). Otto anni prima, Tagore (che già nel 1907 aveva dedicato al giovane Sri Aurobindo, allora in piena attività politica, la famosa poesia Namaskar) testimoniava il suo memorabile incontro con lui a Pondicherry scrivendo fra l’altro: Ho sentito che la parola degli antichi Rishi indiani era espressa da lui e quell’equanimità che dà all’anima umana la libertà di accedere nel Tutto. Gli dissi: “Voi possedete la Parola e noi accettiamo di riceverla da Voi. L’India parlerà al mondo attraverso la Vostra voce …” (in Modern Review, XLIV, Jul. 1928, p. 60).
Nel 1893 dunque, Sri Aurobindo, perfettamente occidentalizzato, rimette piede sul suolo natale. Suo padre non può riabbracciarlo, perché muore di crepacuore alla falsa notizia che la nave su cui viaggiava suo figlio era affondata. Come misi piede sul suolo indiano […], cominciai ad avere esperienze spirituali, ma queste non erano separate da questo mondo, avevano anzi un’interiore e infinita relazione con esso (CWSA, 35, Letters on Himself, p. 233). Gli basteranno tredici anni per reindianizzarsi fino al midollo: apprende il sanscrito, il bengali e molte lingue indiane moderne, assimilando profondamente nel contempo tutto il vasto patrimonio culturale e religioso del suo paese. La sua attività è subito intensissima: oltre a insegnare francese e inglese al College di Baroda (di cui diventa presto rettore), svolge come giornalista, oratore e organizzatore una formidabile attività rivoluzionaria per la liberazione dell’India dal giogo britannico:
So di avere la forza di liberare questa razza caduta. Non è una forza fisica – non combatterò con la spada o il fucile – ma la forza della conoscenza. Nel 1901, tramite un annuncio su un giornale, conosce Mrinalini Bose, giovane di ottima famiglia, e la sposa, ma cinque anni dopo questo matrimonio fatto di lunghe separazioni scrive al suocero: Temo che non varrò mai molto, quanto a virtù domestiche. Ho tentato, con scarsissimo successo, di ottemperare almeno in parte ai miei doveri di figlio, fratello e marito, ma vi è in me qualcosa di troppo imperioso che mi costringe a subordinare ad esso tutto il resto (Archives and Researches, 12, 1977 p. 85). Mrinalini, pur a lui devotissima, non riesce a seguirlo e trova la sua via nell’Ashram di Ramakrishna di Belur Math.
La serie di articoli che Sri Aurobindo, ventunenne, aveva cominciato a scrivere sul quotidiano di Bombay Hindu Prakash era stata interrotta dalle autorità. Ma è soprattutto sulle pagine del quotidiano inglese Bande Mataram che egli ispirerà come nessun altro il nascente movimento nazionalista: La più grande cosa fatta in quegli anni fu la creazione di un nuovo spirito nel paese (CWSA, 36, Autobiografical Notes, p. 59), in un tempo in cui parlare di completa indipendenza era considerato, come ricorda Nirodbaran, un delirio da pazzi (Sri Aurobindo for All Ages, p. 43). L’India, nella chiara visione di Sri Aurobindo, doveva innanzitutto conquistare la libertà per realizzare in futuro il suo speciale destino: Solo in India si trova auto-trattenuta, dormiente, l’energia e l’invincibile individualità spirituale che può ancora levarsi e spezzare le proprie catene e quelle del mondo, scriveva nella prima decade del ʼ900.
Lo studio della storia lo aveva portato alla conclusione che senza una rivoluzione nessun paese può conquistare la libertà: La Pace fa parte dell’ideale supremo, ma dev’essere spirituale o almeno psicologica alla sua base; senza un cambiamento nella natura umana non può essere definitiva. Se è tentata su qualche altra base (principio morale o vangelo di non-violenza o qualunque altra) fallirà e potrà lasciare le cose peggio di prima (CWSA, 36, Autobiografical Notes, p. 48). I suoi articoli, di cui lunghi estratti erano riportati nelle colonne del Times di Londra, gli valgono un primo arresto per sedizione nel 1907. Liberato su cauzione, si dimetterà dal College di Baroda ma non dall’attività politica. Arrestato di nuovo l’anno dopo per implicazioni indirette nel fallito attentato a un giudice britannico, approfitta del forzato isolamento di un anno nel carcere di Alipore per approfondire quella dimensione interiore e spirituale le cui porte gli si erano spalancate dopo l’esperienza ̶ ottenuta in soli tre giorni e da allora stabilita per sempre ̶ del silenzio mentale, in seguito al suo incontro con Baskar Lele, uno yogi del Maharashtra che aveva indovinato, dietro l’eroismo del giovane politico, il destino di una grande anima. Come ricorda lo stesso Sri Aurobindo, l’esito finale di quell’incontro fu che una Voce dentro di lui [Lele] lo fece rimettermi al Divino dentro di me imponendomi assoluto surrender [sottomissione] alla Sua Volontà ̶ un principio o piuttosto una forza-semenza alla quale mi attenni irremovibilmente e in maniera crescente e che mi fece passare attraverso tutti i meandri di un imprevedibile sviluppo yogico non legato ad alcuna singola regola o stile o dogma o Shastra [insegnamento] (CWSA 35, Letters on Himself, p. 240).
Gli Inglesi, che credevano allora di poter finalmente mettere a tacere ‘l’uomo più pericoloso dell’India’ con cui avevano fino a quel momento avuto a che fare, come dichiarò l’allora viceré dell’India Lord Minto, lo videro di nuovo libero nel 1909 dopo un clamoroso processo. Il Bande Mataram era stato soppresso, la maggior parte dei leader nazionalisti imprigionati, deportati o in esilio. Dopo le cruciali esperienze spirituali vissute in carcere, la visione che Sri Aurobindo aveva della vita era radicalmente cambiata e il suo lavoro vòlto ormai a superare di gran lunga il servizio e la liberazione del paese, fissandosi su uno scopo precedentemente solo intravisto, che era universale nella sua portata e interessato a tutto il futuro dell’umanità. (CWSA, 36, Autobiografical Notes, p. 61).
Egli inizia un nuovo settimanale in inglese, il Karmayogin, e uno in bengali, il Dharma, ma tanto i suoi scritti quanto i suoi discorsi, che riaccendono di vita lo spirito d’indipendenza in folle crescenti, fluiscono ormai da un assoluto silenzio della mente. Nel 1910, un nuovo mandato d’arresto per sedizione cade in sua assenza: Sri Aurobindo, in seguito a un preciso e potente Adesh [comando divino] era partito clandestinamente (un viaggio avventuroso e miracoloso) per Pondicherry, allora colonia francese, dove sarebbe restato ininterrottamente per quarant’anni, concentrato in una sadhana [disciplina spirituale] senza precedenti ̶ fatta non per se stesso, ma per la coscienza terrestre: per aprire una via affinché la coscienza terrestre cambi (…) Lungi dal mio scopo propagare qualche religione, nuova od antica, per l’umanità in futuro. C’è una via da aprire che è ancora bloccata, non una religione da fondare. (CWSA, 35, Letters on Himself, p. 405 e 696).
Il ritiro di Sri Aurobindo dall’attività politica, com’egli stesso precisò in seguito, non significò, come i più supposero, ch’egli si era ritirato in qualche altezza spirituale, privo d’ogni ulteriore interesse per il mondo o il destino dell’India. (…) ché il principio stesso del suo yoga non era solo realizzare il Divino e raggiungere una completa coscienza spirituale, ma far anche entrare tutta la vita e l’attività del mondo nell’orizzonte di questa coscienza e azione spirituale e basare la vita sullo Spirito e darle un significato spirituale: (…) uno yoga destinato ad essere una base non per un ritiro dalla vita, ma per la trasformazione della vita umana (CWSA, 36, Autobiographical Notes, p. 65 e 332). Il seme dell’indipendenza dell’India era stato gettato ed egli la ‘vedeva’ già libera: il suo personale intervento non era più indispensabile. Inoltre, la grandezza del lavoro spirituale che l’attendeva gli diveniva sempre più chiara e si rese conto che era necessaria la concentrazione di tutte le sue energie su questo. (Ibid., p. 64)
Prima di ritirarsi dall’attività politica, Sri Aurobindo sapeva dal di dentro, come egli stesso affermò più tardi, che il lavoro che aveva lì cominciato era destinato ad essere portato avanti, sulle linee che aveva previsto, da altri, e che il trionfo del movimento che aveva iniziato era certo, senza la sua azione o presenza personali. (CWSA 32, Letters on Himself, p. 26)
Dal 1914 al ʼ21 pubblica Arya, un mensile in inglese ove le sue esperienze interiori andranno costituendo il corpo fondamentale di quegli scritti che è forse improprio definire ‘filosofici’ nel senso corrente: Ciò che scrissi fu il lavoro dell’intuizione e dell’ispirazione operanti sulla base della mia esperienza spirituale. Non ho un’altra tecnica come i moderni filosofi, la cui filosofia considero solo intellettuale e quindi di valore secondario. (Evening Talks recorded by A.B. Purani, I, p. 127). Escono così The Life Divine, The Synthesis of Yoga, The Secret of the Veda, le traduzioni e i commenti alle Upanishad, The Ideal of Human Unity, Essays on the Gita, The Psychology of Social Development (più tardi pubblicata come The Human Cycle), The Future Poetry, The Foundations of Indian Culture. Alla base di tutta questa prodigiosa produzione, cui si affiancherà un’altrettanto prodigiosa produzione letteraria, poetica e teatrale, è ̶ considerata sotto tutti i possibili aspetti, dal metafisico allo yogico, dallo psicologico al sociale ̶ la verità essenziale del Sanatan Dharma (la ‘Religione eterna’: la tradizione religiosa e spirituale dell’India), di cui Sri Aurobindo aveva avuto un’esperienza fondamentale nel carcere di Alipore, nel 1908.
La scoperta di un potere reale dello Spirito sulla Materia, e non di una verità teorica (Ché verità e conoscenza sono un bagliore inutile / se la Conoscenza non apporta il potere di cambiare il mondo, leggiamo in Savitri, II, p. 823-24) è il Segreto pragmatico che Sri Aurobindo avrebbe a poco a poco riscoperto nel corso della propria esperienza, trovando l’ardire di scavalcare d’un balzo la sua cultura occidentale e la tradizione religiosa indù, come osserva Satprem: è assolutamente vero, infatti, che l’essenziale affiora quando abbiamo tutto dimenticato. (Sri Aurobindo – L’avventura della Coscienza, p. 36)
Nel 1914, Mère, allora Mirra Alfassa, francese, espressione vivente del fiore più raffinato della cultura europea assieme alle affiliazioni spirituali con l’Oriente, come scrive Nirodbaran (Op. cit., p. 151), sbarca in India e incontra a Pondicherry Sri Aurobindo: Poco importa che ci siano migliaia di esseri immersi nella più densa ignoranza, Colui che abbiamo visto ieri è sulla terra; la sua presenza basta a provare che verrà un giorno in cui l’ombra sarà trasformata in luce e in cui il Tuo regno sarà effettivamente instaurato sulla terra, ella registra nel suo diario spirituale (Prières et Meditations, p. 99). Sri Aurobindo, interrogato più tardi da un discepolo a proposito di quell’incontro il cui significato, come osserva Nirodbaran, è incommensurabile e si rivelerà progressivamente nel tempo, affermerà: Fu la prima volta che seppi che il perfetto surrender fino all’ultima cellula fisica era umanamente possibile; fu quando Mère venne e s’inchinò che vidi quel perfetto surrender in azione (Nirodbaran, Op. cit., p. 151. Tutte le mie realizzazioni, dichiarerà in seguito, sarebbero rimaste per così dire teoriche per quel che concerne il mondo esteriore. È Mère che ha mostrato la via verso una forma pratica. (Ibid., p. 152).
A Mère, che tornerà nel 1920 per restare definitivamente, Sri Aurobindo affiderà l’incarico materiale dell’Ashram che si era intanto venuto formando attorno a lui, malgrado non gli piacesse che ‘la sua casa’ fosse così chiamata (poiché la parola ha assunto per la mente moderna il senso di un’istituzione pubblica). Dei molti che venivano a lui come api in cerca di miele, alcuni ottenevano infatti di restare per praticare la sadhana sotto la sua guida diretta (A.B. Purani, Op. cit. p. 222). Ma presto Mère avrebbe dovuto assumere l’intero incarico, materiale e spirituale, di quello che Sri Aurobindo chiamava un “laboratorio” di yoga supermentale; egli infatti si sarebbe ritirato in completa reclusione dopo il 24 novembre 1926, data di una delle tappe decisive del suo yoga, quella della discesa di Krishna nel suo corpo: la discesa della luce sovramentale nel fisico che preparerà la discesa della Supermente, che apre la possibilità finora rifiutata d’unificare lo Spirito e la Materia, poli apparentemente opposti, e dunque la possibilità di trasformare il corpo.
Nel suo ritiro assoluto, durante il quale altre sue opere vedono la luce, salvo Savitri, su cui lavorò fino all’ultimo, Sri Aurobindo è più che mai in contatto con le forze in gioco nel mondo: No, non è con l’Empireo che sono impegnato; magari lo fosse. È piuttosto con l’estremo opposto, scriveva in una lettera del ʼ36, è nell’Abisso che ho dovuto immergermi per costruire un ponte fra i due. Ma anche questo è necessario per il mio lavoro e lo si deve affrontare (CWSA 35, Letters on Himself, p. 360). L’impresa tremenda di aprire le cellule fisiche alla Luce divina significa affrontare la formidabile resistenza dell’Incosciente terrestre: È solo l’Amore divino che può sopportare il peso che devo sopportare, che devono sopportare tutti coloro che hanno sacrificato tutto il resto all’unico scopo di sollevare la terra dalle sue tenebre verso il Divino. (Ibid., p. 46)
Bisogna colmare l’abisso che separa la Mente dalla Supermente, aprire i passaggi chiusi e creare vie per salire e scendere lì dove ora non è che vuoto e silenzio, aveva scritto, quindici anni prima, ne La Vita Divina. (II, p. 152)
E la discesa del supermentale significa che il Potere [supermentale] sarà nella coscienza terrestre come forza vivente proprio come ci sono già la mente pensante e il mentale superiore. (…) la discesa di questa Verità che apre la via a uno sviluppo della coscienza divina qui sulla terra è il senso finale dell’evoluzione terrestre (CWSA 35, Letters on Himself, p. 280 e 281).
Il contatto di Sri Aurobindo col mondo esterno è spiritualmente attivo (La mia vita è stata una battaglia dai primi anni ed è ancora una battaglia: il fatto che la conduca ora da una stanza al piano di sopra e con mezzi spirituali (…) non fa alcuna differenza per il suo carattere: Ibid., p. 44); se egli intervenne silenziosamente ogni volta che fu necessario (la storia molto raramente registra le cose che furono decisive ma che avvennero dietro il velo … : Ibid., p. 26), da ricordare è almeno l’uscita dal suo riserbo durante la seconda guerra mondiale: quando il Nazismo minacciava di dominare il mondo, egli si dichiarò apertamente dalla parte degli Alleati, ponendo interiormente la sua forza spirituale su di essi dal momento di Dunkirk e incoraggiando in più modi aiuti concreti in loro favore quando l’opinione pubblica indiana, ancora amaramente anglofoba, considerava la vittoria di Hitler come la propria vittoria. Sapeva infatti che la vittoria nazista avrebbe significato la schiavitù del genere umano alla tirannia del male, e un regresso per il corso dell’evoluzione, specialmente per l’evoluzione spirituale dell’umanità (…), la schiavitù non solo dell’Europa ma dell’Asia, e in essa dell’India, una schiavitù ancora più terribile di qualunque altra questo paese abbia mai sopportato, e la rovina di tutto il lavoro che era stato fatto per la sua liberazione. (CWSA 36, Autobiographical Notes, p. 66)
Il contatto coi discepoli è mantenuto in forma epistolare: più di duemila pagine di corrispondenza che costituiranno uno strumento efficace verso il suo scopo centrale: una canalizzazione [della Forza che andava crescendo nella sua pressione sulla natura fisica] era necessaria, e questo servì allo scopo (CWSA 35, Letters on Himself, p. 452).
Il 15 agosto del 1947 l’India conquista l’indipendenza. È il settantacinquesimo compleanno di Sri Aurobindo: Considero questa coincidenza, non come un incidente fortuito, ma come la sanzione e il sigillo della Forza divina che guida i miei passi sul lavoro con cui cominciai la mia vita, l’inizio del suo completo adempimento … (CWSA 36, Autobiographical Notes, p. 474), scrive fra l’altro, per l’occasione, in un memorabile messaggio richiestogli e diffuso da All India Radio.
Il 5 dicembre 1950 Sri Aurobindo lascerà il corpo: questo ha moltiplicato la sua azione (…) È stata davvero una sua SCELTA, riteneva che a quel punto lasciare il corpo era il modo migliore di proseguire il lavoro: “il mondo ancora non è pronto”, confiderà Mère a Satprem dodici anni dopo: “Ritornerò solamente in un corpo supermentale (…) Tu devi rimanere … Tu continuerai, andrai fino al fondo del lavoro” le aveva comunicato. (L’Agenda di Mère, III, 17 novembre; X, 21 maggio 1969 e III, 8 dicembre 1962).
Paola De Paolis
Roma, 28-06-2022